Tre domande a
- Agostino Melillo
Communications Manager Italy and Spain
and EMEA Influencers Lead at Intel
Prima di ricoprire il tuo ruolo in azienda hai fatto un percorso di carriera in agenzia di comunicazione. Quali le differenze e quali i punti di contatto?
Nella mia esperienza le differenze sono tante, ma ogni agenzia è diversa dall’altra e ogni azienda è diversa dall’altra, per cui fatico ad offrire una regola che sia valida universalmente. Inizierei da quello che per me non è cambiato, ovvero il modo di iniziare la giornata: doccia, colazione e rassegna stampa (spesso non in quest’ordine).
Quello che è cambiato, invece, è il contesto professionale, l’ambiente di lavoro, la struttura dell’organigramma, il modo di raggiungere i risultati. In agenzia sei in prevalenza fra professionisti con competenze simili alle tue, che svolgono funzioni a grandi linee omologhe, e che conoscono bene quello che è il tuo lavoro. La bussola del tuo lavoro sono i clienti a nord, la loro soddisfazione, e i giornalisti a sud, quanto riesci ad essere una fonte di notizie e unire i puntini per far accadere cose. Poi a est e ovest c’è il tuo diretto superiore e i leader dell’agenzia.
In aziende con struttura simile alla mia, pochi – o nessuno – nel tuo ufficio conoscono bene o hanno mai svolto il tuo lavoro. La maggior parte riveste tutt’altra carica e non ha idea del lavoro che c’è dietro le quinte per promuovere e difendere la reputazione dell’azienda. Devi essere tu promotore del tuo lavoro ed essere utile. I tuoi omologhi sono collocati in altri luoghi del mondo e il più del tempo vi sentite e vedete telematicamente.
Nell’ufficio locale sei per tutti l’esperto di comunicazione, una figura mitologica con gli occhi attenti del legal e il sorriso a trentadue denti del marketing, che ha la capacità magica di far finire le persone e i prodotti sui giornali, in tv o in video di youtube da decine di migliaia di visualizzazioni. E hai piena responsabilità della tua funzione. La tua bussola è il tuo manager o l’ad della country, con cui imposti gli obiettivi del tuo lavoro. Il nord è la reputazione del tuo brand.
Quando lasciai un’agenzia di comunicazione accettando l’offerta di un’azienda, la mia aspettativa era di poter seguire i progetti con maggiore profondità, avere maggiore controllo; essere responsabile di tutto il ciclo di vita del progetto di comunicazione, dall’analisi del problema all’impostazione degli obiettivi, dalla pianificazione strategica alla misurazione dei risultati. Scegliere con chi lavorare, impostare il brief. E in teoria è così. Poi nella vita reale ci sono sempre muri da abbattere e staccionate da saltare e lancette che scorrono, e la conoscenza completa delle cose è sempre irraggiungibile, coperta da un velo impalpabile, e si lavora con le informazioni che si riesce ad ottenere e i budget che si riesce a sbloccare e le persone che si riesce a coinvolgere... con l’imponderabile che osserva dal buco della serratura, pronto a bussare quattro colpi secchi sulla porta della sventura. Ma è anche questo il bello: senza limiti, l’arte non esiste.
In agenzia era stimolante scivolare da una riunione sulla posateria per la tavola ad una sulla sicurezza informatica, e poi una quotazione in borsa, la gestione della crisi reputazionale di una società di calcio, rebranding di una leggenda della moda uomo, magari tutto nella stessa mattina; e poi al pomeriggio brainstorming per preparare una gara di una multinazionale del settore alimentare. Ma era meno interessante quando posateria per la tavola, sicurezza informatica, quotazione in borsa, società di calcio, moda uomo e settore alimentare, ti scrivevano una email ciascuno, quasi in contemporanea, alle sette di sera, con priorità alta...e poi quel recall infinito per convincere almeno due giornalisti a partire per un roadshow di tre giorni in Calabria a fine agosto. Del cliente del martedì mattina e della sua call settimanale di tre ore in cui per la prima metà del tempo racconta fatti personali citando persone di cui ormai immagini le fattezze anche non avendole mai viste, e mai lo farai... E quando pensi di aver trovato un equilibrio e raggiunto una conoscenza della materia tale da poter svolgere in maniera soddisfacente il tuo lavoro anche per il giudice più severo di te stesso, entra un nuovo cliente e ti cambia la mansione... perché quello che ho visto in agenzia è che la quotidianità varia fortemente in base ai clienti che segui. In azienda, cambia se cambi ruolo.
Per rispondere – finalmente – alla domanda, concluderei che le affinità e le divergenze ci sono, ma dipendono tanto dall’ambiente umano, dal settore, dal proprio atteggiamento, e spesso anche dalla fase della vita che stai vivendo. Diffiderei di chi intabella una norma universale manichea.
Qual è, a tuo avviso, il cambiamento più significativo che è avvenuto (o sta avvenendo) nel mondo della comunicazione d’impresa?
I cambiamenti che stanno avvenendo nella comunicazione d’impresa sono tanti e repentini, paralleli alla rivoluzione copernicana della comunicazione massmediatica. Dovremmo scriverci un libro. Anzi, lo hanno già fatto in molti, ma tra qualche anno non saranno più validi.
La frammentazione dell’audience è un aspetto preminente del nostro tempo. La disintegrazione dei cluster demografici in personas. La disintermediazione. L’audience che prende parola, che agisce, ma che si distrae facilmente, anche. L’esplosione dei contenuti video. L’ascoltare che sembrerebbe piacere più del leggere e dello scrivere. La maggiore capacità di misurazione dell’impatto della comunicazione, o l’illusione di questa misurabilità: la metà delle cose che facciamo restano inutili ma continuiamo a non sapere quale sia questa metà. E poi c’è finalmente la riconosciuta importanza dell’employee come ambassador dell’azienda. Oggi con i social, soprattutto Linkedin, è impossibile non comprendere l’importanza della voce dei propri dipendenti per promuovere la reputazione di un’azienda. La comunicazione d’impresa è sempre più multidirezionale e multimediale.
In un mondo mediatico dove non tramonta mai il sole, dove sei costantemente esposto all’osservazione e valutazione da parte del pubblico, la reputazione è sempre più un patrimonio fondativo dell’impresa e la comunicazione d’impresa è ciò che la promuove e la protegge. Ma la reputazione è sempre meno proprietà dell’azienda stessa: la reputazione è una rappresentazione socialmente negoziata, il cui controllo si complica al complicarsi delle dinamiche sociali.
L’antidoto a questa complicazione del mondo e di chi lo abita è stringersi maggiormente attorno a quella che è la costruzione della propria identità e rinunciare ad inseguire tutti i pubblici. Il communication mix deve essere fondato sugli obiettivi e focalizzarsi sulle priorità. Assicurarsi di rivolgersi al mondo mantenendo lo stesso volto, gli stessi valori, in tutti i canali mediatici. Adattare il registro, ma non i valori di base. Lavorare sulla coerenza di ogni singolo messaggio. Lavorare sulle persone che offrono il proprio volto e la propria voce all’azienda per rappresentare quei valori con continuità e autenticità.
Forse il cambiamento principale che va operato è che in questo mondo il comunicatore deve essere nel board dell’azienda, partecipare alla valutazione delle decisioni strategiche.
E che le aziende devono evolversi da entità economiche organizzate con responsabilità sociale in entità sociali organizzate con responsabilità economica, perché il valore sociale che restituiscono sarà più importante di quello economico, per la loro longevità.
Raccontaci di un progetto del quale sei particolarmente orgoglioso
Fortunatamente sono tanti. I progetti di cui vado più orgoglioso sono quelli che hanno un impatto diretto positivo sulle persone., e mi dà spesso soddisfazione fare formazione. Al di là del singolo progetto, sono stato orgoglioso quando ho visto la reputazione dell’azienda in Italia salire dal 41mo posto di quando sono arrivato sette anni fa fino al settimo.
Se devo sceglierne uno, ricordo con piacere di un progetto per i bambini dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù al quale fui invitato, in cui contribuimmo con un viaggio virtuale fra le stelle in compagnia di un famoso divulgatore scientifico della tv, installando in una sala dell’ospedale dei mini-PC Intel NUC e dei visori di VR. Non ricordo le parole esatte che usò una bambina intervistata al TG mentre volteggiava intorno alla Luna per descrivere l’esperienza, per lei che era bloccata a letto da mesi, ma furono molto emozionanti.
E poi, sempre in tema di VR, fu senz’altro memorabile una delle prime attività fatte in compagnia dell’agenzia di comunicazione con cui lavoriamo attualmente. Era l’inizio del 2020 e sapete tutti quanto stava accadendo nel mondo in quel periodo, specialmente in Italia, oltre che in Cina. Avevamo un evento stampa in programma e decidemmo, anziché annullarlo, di convertirlo al 100% in un metaverso (a quel tempo “metaverso” non era ancora la definizione più in voga dei mondi virtuali... sembra passata un’era geologica). Fummo i primi in Italia a provarci in questa modalità (all’estero conoscevo un altro paio di tentativi con esiti più o meno buoni) e le sfide sono state tante. Ma fu un successo – al netto di giornalisti solitamente impeccabili che a un certo punto iniziarono a lanciarsi reciprocamente addosso le pietanze virtuali del buffet.... Fu anche uno sforzo organizzativo immane in quel periodo, con ingenti criticità nella gestione pratica dell’evento: immaginate di riconoscere e intercettare i tanti giornalisti partecipanti solo dai loro avatar fra le diverse stanze parallele nel metaverso, tenerne traccia, assicurarsi che avessero una buona esperienza e che riuscissero a seguire gli speech. L’agenzia fece un capolavoro.